34^ Lettera del Libro dell’Es di Georg Groddeck

Trentaquattresima lettera a un’amica
(da aggiungere al Libro dell’Es)
di Georg Groddeck

Ora dunque, carissima amica, Lei desidera rammentare il nostro vecchio alterco sull’Es e si comporta come se non fosse successo nulla. E pretende che io ritorni con il pensiero a quei ragionamenti che, con mio grande stupore, mi tormentavano quattro anni fa. Eppure Lei sa che posso ricordare al massimo per quattro giorni quanto dico nel fervore della schermaglia, non certamente quattro anni. Perciò dovrà addossarsi Lei tutta la responsabilità se ciò che scrivo oggi dovesse essere in contraddizione con quanto affermato allora. Non capisco come mai a un tratto Lei si occupi con tanto fervore della parolina “Es”, a meno che non lo faccia per seguire la moda. Stia attenta: la parola “Es” è di moda, non lo è invece la cosa che vi sta dietro e non potrà mai esserlo, perché va contro la vanità dell’uomo, distrugge la fiducia nell’Io e solo pochi lo sopportano. Anzi, anche questi ultimi solo per poche ore riescono a lavorare a un tale concetto che incute terrore. L’Es è ben nascosto dietro l’Io, tanto da non farsi trovare, e punisce severamente coloro che osano sollevare il velo del mistero.
Lei comunque mi ha posto domande ben precise e, per quanto mi è possibile, vorrei risponderLe.
A una faccio presto. Lei vuol sapere come mi immagino il processo della guarigione. Non m’immagino proprio niente e con un po’ di gioia maligna lascio questo campo a coloro i quali, per dovere o per sovrastima di sé, sono costretti a pronunciarsi a parole su cose che finora nessuno è riuscito ancora a decifrare e che non potranno neanche mai essere decifrate, neppure se si scoprisse che cosa è la vita. Perché la vita è multiforme.
A scuola ci fu assegnato il compito di calcolare quanto tempo è necessario per scrivere tutti i diversi modi in cui l’alfabeto può essere composto nella mente. Se non ricordo male, non sarebbe stato sufficiente il tempo che è passato da Adamo fino a oggi, neppure lavorando alacremente. Se anche la vita fosse composta di solamente ventiquattro elementi, ma probabilmente sono di più, i processi di guarigione non sarebbero comunicabili. Lasciamo stare!
La Sua seconda domanda – o meglio, la Sua affermazione, perché questo significano le Sue parole – fa sperare già di più in una stimolante schermaglia epistolare. Lei dice: << Se, come si suppone, determinate malattie derivano dalla rimozione, non appena il materiale rimosso emerge alla coscienza, o meglio, non appena è divenuto proprietà della coscienza e non rimane solo un modo di dire, la malattia dovrebbe scomparire. Sarebbe quindi compito del trattamento portare alla coscienza il rimosso >>. Lei non è la sola a pensare e a esprimere una siffatta cosa, sembra che anche parecchi specialisti ne siano convinti e agiscano di conseguenza. Questa però è solo metà della questione.
Non è corretto dire che le malattie insorgono a causa della rimozione; deve intervenire qualcos’altro perché la rimozione possa essere utilizzata per ammalarsi. Nessuno sa che cosa sia questo qualcos’altro. Ogni tanto si accende un lumicino, ma si spegne ancora prima che ce ne avvediamo e dobbiamo essere ben contenti che non si sia trattato di un fuoco fatuo che porta nella palude. Si tratta quindi di ciò che è sconosciuto e non serve a nulla chiamarlo costituzione o ereditarietà o predisposizione: tutte queste parole fanno nascere l’idea che abbia un contenuto conosciuto ma, a guardare meglio, sono frutti vuoti dei quali non vale la pena rompere il guscio. Il mistero, l’Es comanda tutto, anche le rimozioni e le utilizza oggi per uno scopo, domani per un altro e talvolta, spesso, anzi molto spesso, per far ammalare l’uomo. Perché lo faccia, come lo faccia e quando lo faccia non ci è dato saperlo.
Si è mai fermata a riflettere sulla rimozione? Intendo dire, indipendentemente da ciò che raccontano i libri di psicoanalisi? Probabilmente no, e ha fatto bene. Da una curiosità di tal genere non emerge altro che la vecchia e noiosa verità: il nostro sapere è incompleto.
Dal momento, però, che Lei chiede informazioni, voglio parlarne un po’. Suppongo che in questo momento Lei sia occupata a preparare la merenda ai suoi marmocchi. Lo fa senza particolare attenzione, perché vi è abituata e i gesti si compiono da soli. Se lascia il suo ruolo alla figlioletta, ella non sarà in grado di chiacchierare così animatamente mentre spalma i panini come riesce a fare Lei. Lei però vi riesce soltanto perché ha imparato a rimuovere ciò che fanno le Sue mani. Anzi, Lei non rimuove solo il pensiero dall’occupazione delle Sue mani in quel momento, deve allontanare dalla coscienza anche la maggior parte di ciò che vedono i Suoi occhi. Sulla retina si creano continuamente migliaia di immagini di migliaia di oggetti diversi che Lei deve rimuovere. Il Suo nervo acustico viene colpito incessantemente da nuovi stimoli che, per la maggior parte, deve escludere immediatamente dal Suo pensiero, altrimenti come potrebbe sopravvivere? Il Suo naso viene bombardato da masse dense di odori, la Sua pelle è tenuta in uno stato di continua eccitazione dal movimento delle Sue membra perché parla e respira, e così via perché vive, pensa, percepisce e sente. In fin dei conti, rimuovere è l’attività principale dell’uomo: questa è la sua vita.
Ammetto che non è piacevole convincersene perché, così facendo, si va contro la vanità umana e chiaramente questa rimozione solo di rado ha origine dal nostro Io. Anche il difensore più entusiasta della libera volontà, della responsabilità e dell’Io lo deve riconoscere. E se lo riconosce dovrebbe anche arrivare alla conclusione che ” io faccio ” è un autoinganno. Non esiste né tempo né spazio per un tale “ io faccio ”. “ Vengo fatto ”, così è e così sarà sempre. Naturalmente abbiamo cercato e anche trovato scappatoie per far passare come conseguenza della volontà dell’Io il misero residuo di tutte le rimozioni, che in fondo viene accettato, biasimato o lodato come azione. Si parla di “ concentrarsi ” e cose simili, ma sono solo cose mal comprese, chiacchiere vuote. Il centro dell’uomo è l’ombelico e chi si concentra guarda il suo ombelico, cioè fa esattamente il contrario di ciò che vogliono indicare i chiacchieroni con quell’espressione. In verità masse enormi, provenienti dal mondo esterno, si riversano di continuo su di noi e ci distruggerebbero se non vi fosse l’Es a fare da filtro; esso utilizza per il nostro Io ciò che è adatto a noi e rimuove ciò che non lo è, lo utilizza per qualcos’altro, ogni tanto per ammalarsi. Se però si dice: le malattie insorgono dalla rimozione, bisogna aggiungere subito che anche la guarigione arriva allo stesso modo, anch’essa non è pensabile senza nuove rimozioni. Ciò che è importante nell’insorgere della malattia non è la rimozione in sé, neppure la mancata riuscita di una rimozione, bensì l’intenzione dell’Es di ammalarsi; a tale scopo esso naturalmente ricorre al mezzo che usa sempre per tutto ciò che fa: la rimozione. È solo un modo di dire; l’Es non può fallire in niente.
Tanto meno la guarigione avviene attraverso la presa di coscienza di materiale rimosso. Talvolta pare che succeda veramente così e, poiché l’Es sembra possedere molto umorismo, non di rado si diverte a far coincidere la presa di coscienza con la guarigione, procedimento questo che può sbalordire le persone più assennate. Tuttavia l’undicesimo comandamento, secondo il catechismo del vecchio Troll, che era mio padre e come tale ha instillato in me ogni sorta di bene e di male, recita “ Non farti sbalordire ”: molto spesso, incredibilmente spesso, la guarigione interviene senza che la minima parte di materiale rimosso arrivi alla coscienza. L’attività dell’uomo è rimuovere, è lasciare che si svolgano dietro la nebbia della coscienza i fatti e la vita, l’ammalarsi e il guarire.
Che cosa mai vuol fare allora la psicoanalisi, dirà Lei, se il suo scopo non è rendere cosciente il rimosso? Non ho affermato che la psicoanalisi non abbia quest’intenzione, ma questo non è il proposito del trattamento psicoanalitico del malato. La psicoanalisi comunque, e non si può dirlo mai in modo sufficientemente chiaro, perché si tende a dimenticarlo, ha molti ambiti di lavoro più importanti del trattamento dei malati: è indubbio ormai che la psicoanalisi è la strada praticabile e assolutamente da percorrere per studiare l’uomo e quindi il mondo; essa è inoltre la via che ciascuno può percorrere per dimenticare l’odio e imparare l’amore. Nonostante la sua origine, è identica al metodo di colui che si chiamava il figlio dell’uomo, o forse proprio per la sua origine, perché, per quanto possa essere doloroso per chi prova odio nel mondo, non si può negare che Cristo fosse un ebreo. È vero che gli ebrei lo hanno anche crocefisso, ma è ingiusto rimproverarli per questo: noi probabilmente non avremmo fatto di meglio.
Per il suo scopo principale, la liberazione dell’uomo, è giusto quindi dire che la psicoanalisi spesso vuole portare alla coscienza il rimosso. Invece, il medico che utilizza la psicoanalisi nel trattamento dei malati vuole qualcosa d’altro: vuole abbattere le resistenze del malato nei confronti della guarigione, del mondo e di se stesso; per far questo deve imparare a conoscere queste resistenze e mostrarle al malato e, poiché queste resistenze sono variamente intessute e rinforzate con materiale rimosso, talvolta non gli rimane altro che occuparsi dell’inconscio. Lo scopo che persegue, però, non è rendere cosciente l’inconscio, bensì aprire la strada all’azione della tendenza alla guarigione presente nell’organismo. Il trattamento medico è il trattamento delle resistenze. Se a tal fine si ricorre alla psicoanalisi, spesso nell’interesse del malato, sempre nell’interesse del medico- perché solo per questa via al momento egli può raggiungere l’apice del sapere e del potere- ciò non avviene per liberare rimozioni e renderle accessibili alla coscienza, bensì solo per svincolare dall’impasse quel genere di materiale rimosso che impedisce la guarigione.
Freud, se sono ben informato, inizialmente ha supposto l’esistenza di materiale rimosso bloccato che, non potendo andare né avanti né indietro, ricorre alla malattia; di conseguenza egli pensò che, una volta eliminato il blocco, la guarigione possa, non debba, intervenire. Suppongo che al riguardo fosse per lui chiaro che il rimosso, una volta libero, può tanto scendere verso il basso, nel profondo dell’inconscio, quanto salire al livello della coscienza. L’effetto può essere positivo in entrambi i casi: nessuna delle due vie ha vantaggi rispetto all’altra. Freud, però, non ha mai affermato che tutte le malattie, o anche solo quelle che vengono indicate come nevrosi, sono determinate solo da tali blocchi o che deve subentrare la guarigione una volta che i blocchi vengono sciolti. Non è cieco e, come qualsiasi persona che usa i cinque sensi, sa bene che almeno il 95 per cento delle malattie guarisce senza che il trattamento abbia avuto il minimo effetto.
Freud riteneva quindi che, nel caso dell’analisi usata nel trattamento del malato, non si trattasse di portare alla coscienza, bensì di eliminare l’elemento di disturbo che provoca il blocco, la resistenza. Forse lo pensa ancora: se anche così non fosse, questa è la mia opinione ed è quello che Le interessa sentire.
Quando ero giovane e non avevo ancora l’ambulatorio e giocavo a fare il medico militare, un giorno mi fu portata una bambina in preda alle urla, chiedendomi di aiutarla perché non c’era a disposizione nessun altro medico. Non mi meravigliai del fatto che la piccola urlasse: dalla bocca le pendeva un mostruoso vecchio orologio, la cui catena d’acciaio spariva nella profondità della cavità della bocca. La bambina aveva giocato con l’orologio, aveva ingoiato la catena e, nel tentativo di tirarla fuori, il gancio acuminato, che serviva per fissarla all’occhiello, si era impigliato nella carne dietro il palato molle. Come era naturale fare, con il dito ho liberato il gancio dal blocco – portare alla coscienza l’inconscio, se vuole – e la cosa si risolse. Alcuni anni più tardi avvenne il contrario: un bambino aveva ingoiato una moneta che si era fermata all’inizio dell’esofago. Dopo alcuni inutili tentativi della madre per cercare di salvarlo, tra i quali significativo fu mettere il bambino a testa in giù, venne chiamato un medico che cercò di tirare fuori la moneta con la pinzetta e con ogni genere di lunghe tenaglie; l’unico risultato fu che tutta la parete faringea si ferì e che la moneta venne spinta ancora più in basso e non poté più essere raggiunta da alcuno strumento. Al medico venne quindi l’idea di spingerla del tutto negli inferi della pancia, ma la madre aveva perso fiducia in lui, venne da me e io raccolsi le lodi per ciò che a lui era stato impedito di fare: spinsi giù la moneta con la sonda gastrica. Tragga Lei per favore le conclusioni dai due episodi; in questo modo avrà la mia opinione sul processo di cura dell’analisi medica. Non si tratta di portare alla coscienza qualcosa di inconscio, bensì di eliminare il blocco e non è così raro che il rimosso, invece di emergere alla coscienza, cada in profondità.
Vi sono saggi, soprattutto tra i miei compagni di battaglia nella psicoanalisi, che non vogliono assolutamente credere che una cura possa avere successo anche se non emerge assolutamente niente di inconscio. Ebbene: Habeant sibi! Per me è indifferente. Io credo nella necessità del trattamento sintomatico e lo considero un giochetto, se un medico pratica un trattamento causale, e una presunzione, se egli crede di poter aiutare sempre una persona per il futuro o anche solo per pochi anni “analizzandola completamente”. Il vantaggio del trattamento analitico non sta nel fatto che esso, per la presa di coscienza dell’inconscio, guarisce più a fondo o con maggiore sicurezza rispetto ad altre cure, se mai ce ne fossero, cosa di cui oso dubitare – non tutti sanno quello che fanno -, bensì nel fatto che spesso è l’unico mezzo per far muovere verso la guarigione l’Es dell’uomo posto nelle profondità più profonde. Ciò dovrebbe bastare.
A questo proposito devo anche aggiungere che le mie opinioni sul trattamento delle resistenze si estendono a un ambito medico molto più ampio rispetto a quanto non avvenga per Freud: confesso che nel trattamento di nevrosi spesso emerge più materiale rimosso che in quello di malattie organiche. Questo però vale solo in generale. Suppongo di essere penetrato talvolta maggiormente nelle profondità nell’inconscio, trattando malattie organiche, di quanto sia mai possibile fare nel trattamento delle nevrosi. Questo non è però determinante per la guarigione, in quanto il successo viene deciso dalla eliminazione della resistenza.
Prima di lasciare il campo medico devo dire ancora una cosa su un altro utilizzo della psicoanalisi nella pratica medica, cioè la diagnosi. Lei sa che io attribuisco poco significato a questo trastullo, che è tenuto in così grande considerazione da quel tiranno che è il pubblico. A quasi tutte le malattie non importa niente della diagnosi che viene fatta. Tuttavia, tra il cinque per cento di malati per i quali, seguendo Schweninger e la sua teoria, ritengo opportuno l’intervento medico, ve ne sono alcuni per i quali la diagnosi è importante. Deve essere però una diagnosi diversa rispetto a quella che si fa senza tenere in considerazione l’inconscio. È ovvio che un medico bene o male conosce i metodi di analisi fisica e chimica e proprio a questo scopo tormenta per anni il suo cervello all’università. Questa però è la parte meno importante della visita medica. Una diagnosi approssimativamente corretta oggigiorno può essere fatta, nel cinque per cento dei casi per cui valga la pena fare un esame medico, solo con il ricorso al metodo psicoanalitico; così come viene praticato ora nelle università però è una vergogna. Le università sono tutte senza eccezione trent’anni indietro rispetto alla scienza.
Perdoni questo sfogo! In realtà volevo dire tutt’altro e cioè che per la diagnosi, quindi talvolta anche per il trattamento, pur se indirettamente, è indispensabile la presa di coscienza di materiale inconscio, e che talvolta il trattamento delle resistenze può iniziare solo quando l’inconscio emerge con l’aiuto dell’analisi. Capirà però che è ben diverso da quello che molti profani e medici considerano lo scopo dell’analisi.
È tempo qui di dire ancora una volta che la psicoanalisi non è solo un ausilio del medico per curare i malati. Se così fosse, non ci sarebbe bisogno di fare tanto rumore su questa cosa. Perlomeno l’utilizzerei senza preoccuparmi se anche i colleghi lo fanno. Non mi sento obbligato a recitare la parte del medico maestro di scuola. Ho sperimentato su me stesso però, e vedo giornalmente su altri, che la psicoanalisi è più di una questione medica. Essa è connessa intimamente con tutte le problematiche dell’umanità. Acuisce i nostri sensi, ci insegna a conoscere nuovi mondi, ci regala nuovi ambiti e nuovi metodi di ricerca, ci dà un nuovo animo infantile e nuove possibilità d’amore. E tutto questo grazie al suo rendere cosciente l’inconscio. Di fronte a tali grandi prestazioni non è poi così tanto importante se si pensa che la cura della malattia consista nel rendere cosciente l’inconscio oppure nel trattare le resistenze.
Chi analizza acquisisce in determinati ambiti un grande predominio sugli altri uomini e sull’ambiente e non ho ancora incontrato nessuno che sia riuscito a non analizzare più, dopo averlo fatto per un tempo prolungato. Addirittura Lei, cara amica, che conosce tutto solo per sentito dire, quindi in fondo non conosce assolutamente niente perché l’analisi è una cosa assolutamente pratica, addirittura Lei non riesce più a farne a meno. Di questo si rallegra di cuore
il Suo Patrik Troll.

Traduzione di Donatella Colombo e Giancarlo Stoccoro

apparsa in Die Arche II, 22 ottobre 1926.
edita in Italia in appendice all’edizione italiana di Georg Groddeck Una vita, Wofgang Martynkewicz, a cura di Giancarlo Stoccoro, Il saggiatore editore, Milano, 2005
e in Pierino Porcospino e l’analista selvaggio, ADV Publishing House, Lugano, 2016